La caporale: «A Cuneo una signora mi ha chiamata 'la negretta' degli alpini» ROMA - Indossano il fez da bersagliere, la penna degli alpini, il basco amaranto dei parà. Uno ha la pelle nera, un altro lineamenti orientali, la giovane caporale uno splendido profilo sudamericano. Alcuni sono veterani di missioni all'estero. Escono in coppia, in squadra, in plotone. Ma li si può trovare anche nelle città, incaricati della sorveglianza di caserme o ambasciate, e in queste ore in Abruzzo, impegnati nel soccorso ai terremotati. Sono i «nuovi italiani» con le stellette. Un «reggimento» in aumento: figli di immigrati di seconda generazione, ex bambini «multicolori» nati da coppie miste, oppure ragazzini adottati negli anni '70 e '80 e poi cresciuti nelle nostre scuole, fino al momento della scelta di servire e onorare la Patria. La loro Patria adottiva. Eccola, la brigata multietnica dell'Esercito: stamattina sette di loro, in rappresentanza dei circa 1.500 militari di cittadinanza italiana e origine straniera, faranno il loro esordio in una parata ufficiale. Saranno in tribuna d'onore per celebrare l'avvenuta «piena e felice integrazione». È stato il capo di Stato Maggiore, generale Fabrizio Castagnetti, a scegliere una giornata solenne come quella di oggi, 148˚ anniversario della fondazione dell'Esercito italiano, per dare il suo suggello: alle 10.30, nel corso della cerimonia presso la caserma «Gandin» alla presenza del capo dello Stato, l'alto ufficiale oltre a ringraziare tutti i suoi soldati per la loro «professionalità, dedizione e umanità» dedicherà un saluto proprio a loro, i militari di origine straniera. E la consacrazione avverrà in un modo particolare, chiamandoli uno alla volta, per nome: prima i più alti in grado - i caporalmaggiori Luis Paudice, originario del Brasile, Murthi Sello (India) e Gailson Silva Lopes (Capoverde), poi l'alpina Vivian Peña (Colombia), e infine i caporali Harol Alfonso Corrales Medina (Colombia), Walter De Luca (Filippine) e l'artigliere Monica Mary Sighel, seconda donna del gruppo, nata in Sri Lanka. Gongola uno degli ufficiali che ha organizzato l'evento: «Noi dell'Esercito siamo fatti così: a 40 gradi all'ombra e zaino in spalle, ciò che conta è la capacità, lavorare gomito a gomito e coprire le spalle al compagno. Non abbiamo pregiudizi né difficoltà di integrazione. E le storie di questi ragazzi lo dimostrano». C'è ad esempio il sorriso e l'energia del caporalmaggiore Vivian Peña, soprannominata dai colleghi «Pocahontas», che dalla Colombia dove nacque 24 anni fa ha già rischiato la vita sotto le nostre insegne per tre volte, nelle due missioni svolte in Afghanistan e una in Kosovo. «All'estero nessun problema con i colleghi. Mai. Però una volta, sfilando a Cuneo con il mio battaglione, una signora esclamò: 'Toh, c'è una negretta tra gli alpini!'». Gailson Silva Lopes, originario di Capoverde e accento romanesco, è il basco amaranto che ride accanto a due suoi colleghi davanti al temibile «Centauro», il blindo pesante di cavalleria. «Di discriminazioni razziali - giura - non ne ho mai subite». Cresciuto a Gallicano, paesino in provincia di Roma, adesso semmai lo prendono in giro per la divisa da parà della Folgore quando gira per le strade di Pisa. Walter De Luca è il basco nero al centro della foto: padre italiano e madre filippina. Si conobbero e innamorarono durante una vacanza 21 anni fa e ora loro figlio, VFP1 in fanteria, è in ferma di un anno presso la Scuola sottufficiali di Viterbo e sogna di diventare effettivo. E c'è anche chi ha fatto carriera: il capitano Edmondo Tito, 37 anni, sposato con un'informatrice farmaceutica abruzzese e padre di due bimbi, è nato in Senegal. «I miei genitori naturali non li ho mai conosciuti ». Fu abbandonato a sette giorni in un orfanotrofio e adottato a 10 mesi da una coppia romana, papà pilota Alitalia e mamma casalinga. «Vivo in Italia da 37 anni - scherza giocando sui colori - e prima ero una mosca bianca: alle elementari, alle medie, al liceo scientifico Cannizzaro dell'Eur, sono sempre stato l'unico nero. Poi la società e cambiata e l'Esercito ha rispecchiato, persino in meglio, questa crescita. Non potrebbe essere diversamente: noi abbiamo una vocazione internazionale, nelle mie missioni in Bosnia, Kosovo, Libano e Afghanistan ho fatto esperienze indimenticabili». Il capitano Tito si è laureato in Scienze politiche alla «Sapienza» e oggi lavora nell'Ufficio Informazione dello Stato Maggiore: «Potrà sembrare strano, ma tra militari abbiamo una mentalità più aperta - racconta -. Se un'idea buona viene a un caporale, vale lo stesso. Sarà perché in maggioranza siamo giovani, abituati a conoscere altri popoli, ad andare in vacanza all'estero». È fuori dalla caserma, semmai, che al capitano Tito qualcuno non manca di ricordare le sue origini: «Per esempio quando vado al ristorante, qui a Roma: spesso capita che a mia moglie il cameriere dia del 'lei' mentre a me del 'tu'. Oppure quella volta che, non ancora sposato, prestavo servizio a Perugia e con un collega ci presentammo da una signora per chiedere una stanza in affitto: a lui la diedero, a me no». Fabrizio Peronaci
Corriere della sera
7 maggio 2009
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